top of page

Sotto lo sguardo dell'Aquila

  • Immagine del redattore: Elena Bertoli
    Elena Bertoli
  • 28 gen 2020
  • Tempo di lettura: 8 min

Aggiornamento: 5 set 2020



Marco Claudio Lurco, legionario della Legio III Italica, si guardò intorno come se si fosse appena svegliato da un sogno e vedesse tutto nitido all’improvviso. Quella nuova consapevolezza gli bruciò gli occhi. Chiuse le palpebre e abbassò il volto scuotendo la testa, poi si fermò e le riaprì.

Si guardò i calzari e accanto ad essi c’erano terra e sangue. Era ancora in piedi, in mezzo alla devastazione della battaglia appena vinta contro i Marcomanni.

Il freddo pungente della Germania lo trapassò. In tutto quel silenzio, il vento riuscì ad essere rumoroso e si sollevò facendo piegare gli alberi.

Mentre i soldati erano impegnati a finire i nemici e soccorrere i compagni feriti, Marco Claudio rinfoderò la spada e fece un respiro profondo. Iniziò a camminare tra i cadaveri, facendo attenzione a non pestarli. Quella desolazione gli provocò un senso di smarrimento. I suoi occhi riuscirono a stento a rimanere aperti. Arrancò. Probabilmente era ferito, ma non riuscì a capire dove. Il suo corpo era cosparso di sangue, e lui non riconobbe se fosse suo o di tutti gli uomini che aveva ucciso.

Si fermò e si portò una mano tra le costole, lì dove si era procurato la ferita più grave di tutte. L’armatura tuttavia era intatta. Se una lama l’avesse trapassato, avrebbe sicuramente sentito meno dolore. Quella zona sotto il petto ribolliva, gridava disperazione, pesava talmente tanto da renderlo più curvo ad ogni passo.

Si arrese e cadde sulle ginocchia, per poi lasciarsi andare completamente a terra, sbattendo la testa nel fango. Si trovò in mezzo ai cadaveri, sdraiato e immobile esattamente come loro, con una guancia che affondava nel terreno. Vide ancora più da vicino i corpi martoriati e sporchi, il sangue sgorgato dalle ferite e diventato tutt’uno con la terra. D’un tratto si sentì anch’egli un tutt’uno con quegli uomini, compagni o nemici ormai non aveva più importanza: erano tutti morti, e si sentì morto anche lui.

Chiuse gli occhi, incapace di fare qualsiasi cosa. Avrebbe voluto alzarsi, ma il suo corpo non rispose ai comandi. O forse era la sua anima, arresa al risultato di tanta violenza sperimentata, a non avere la forza di reagire.

Spostò leggermente il viso e vide il corpo di un giovane romano riverso a terra nella sua stessa posizione. I suoi occhi erano spalancati e fissavano il vuoto. Non c’era più nulla in quegli occhi, non c’era più nulla in quel corpo. Allora Marco si destò e capì di essere ancora vivo, vivo e costretto ad osservare quel giovane e il suo sguardo spento, vivo e in grado di percepire il vento gelido che sollevava odore di morte. Era esausto, ma vivo.

Fece forza sulle braccia, strisciò verso il corpo del soldato e lo girò lentamente.

«Che un fascio di luce ti illumini la via per l’Aldilà», disse socchiudendogli le palpebre. Poi si sdraiò anch’egli sulla schiena, rimase accanto a quel corpo privo di vita, e vide il respiro uscire dalla sua bocca come fumo.

La mente gli rievocò ogni singolo attimo della cruenta battaglia appena affrontata: l’avanzata a testuggine, i dardi infuocati lanciati dalle catapulte, il fragore delle spade, la ferocia delle asce e le grida dei barbari. Mentre lo scontro divampava, Marco avrebbe potuto dileguarsi nella foresta senza che nessuno se ne accorgesse o lo fermasse, ma il suo essere non era proteso verso la codardia. Lui non sarebbe morto da disertore, aveva prestato il giuramento di fedeltà che lo legava a Roma, all’Imperatore, al suo generale e alla sua legione.

Osservò il cielo, opaco e spento, silenzioso e desolato come tutto ciò che era intorno a lui. Inerme, tentò invano di trovare un senso all’inquietudine che provava, una risposta all’ennesimo massacro cui aveva partecipato.

Da lontano sentì i soldati raccogliere le spoglie dei loro compagni d’arme, ed ebbe la forza di rialzarsi e tornare indietro.

«Legionario, sei ferito?», gli chiese uno di loro vedendo la sua sagoma avanzare lentamente tra i cadaveri e farsi spazio tra la foschia. Ma lui non rispose, i suoi occhi fissavano un punto intorno al quale tutto appariva sfocato. Proseguì imperterrito, lasciandoseli alle spalle.

Nel raggiungere il resto della guarnigione, riprese le forze ad ogni passo, ma portò con sé la desolazione in cui era rimasto fino a quel momento, ed essa lo invadeva e lo logorava dall’interno, silenziosamente.

Le truppe avanzarono nel vasto territorio per tornare all’accampamento di Castra Regina, che da tempo era diventato la loro nuova casa.

Con loro marciava l’aquilifero, portatore dell’aquila d’oro ad ali spiegate. L’Aquila Imperiale sorvegliava i soldati, si nutriva di numerose battaglie e si compiaceva di altrettante vittorie, era il simbolo dell’onore e l’anima della legione romana.

Marco Claudio percepì lo sguardo dell’Aquila indugiare su di lui, seguirlo nel cammino, esplorarlo nell’animo. Come soldato aveva adempiuto alle richieste di Roma, ma come uomo si dovette inevitabilmente scontrare con la propria coscienza. Si guardò intorno e si sentì freddo come il clima, spoglio come gli alberi.

Le sentinelle lungo il trinceramento videro da lontano gli stendardi illuminati dalle torce e aprirono la Porta Pretoria per far entrare le truppe nell’accampamento.

Marco Claudio si recò presso le bacinelle d’acqua per lavarsi mani e viso. Faticò a togliere il sangue dai suoi palmi, poiché si era seccato e restava impregnato sulle dita per non fargli dimenticare lo scempio di quella giornata.

Ben presto il forte fu pervaso da musiche, brindisi e congratulazioni.

«Marco! Sei ancora vivo!» gli urlò sorridente uno dei soldati prendendolo alle spalle.

«Valerio, vecchio ubriacone!», gli rispose lui abbracciandolo, «È un piacere vedere che anche tu sei tutto intero! Ti facevo già alle baracche da qualche meretrice.»

«Prima festeggio qui con voi. Tieni, questo vino è ottimo per recuperare le forze!» ribadì il compagno porgendogli un boccale e invitandolo a sedersi su una panca per bere e giocare a dadi assieme ad altri commilitoni. Marco però, incapace di sorridere, si ritirò subito verso gli alloggi.

Divideva la tenda con nove uomini del suo stesso reparto, ma quando entrò ve ne era soltanto uno, Lucio Mallio, fiero soldato e suo grande amico, che aveva da sempre servito Roma senza riserve e avrebbe rispettato il giuramento di lealtà e obbedienza fino alla morte.

«Eccoti!», esclamò nel vederlo seduto sulla branda, «Sei solo! Hai notizie degli altri?»

«Sono tutti morti. Siamo rimasti solo noi due in questa miserabile tenda!», rispose Lucio con rammarico.

Marco fece un sospiro e si tolse lentamente il mantello e l’armatura, diventata ormai pesante come i fardelli della sua anima.

«Vorrei levarmela anch’io, mi aiuti fratello?», gli chiese il compagno con il viso sfregiato. Marco gli tolse la lorica segmentata e notò che perdeva del sangue da un fianco.

«Lucio, ma tu sei ferito! Devi farti curare!»

«No, è soltanto un graffio, voglio riposare.»

«Caprone, perdi sangue! Su, appoggiati a me», lo incitò Marco prendendolo con sé.

Accompagnò l’amico in infermeria e lo lasciò nelle mani del medico del forte.

Una volta rientrato nella tenda, si coricò sulla branda con le mani incrociate dietro la nuca, infastidito dal rumore lontano dei festeggiamenti. Lui non aveva nulla da festeggiare. Negli anni aveva provato sofferenze, conosciuto ingiustizie, e ne era stato inconsapevolmente corrotto. Aveva visto molti compagni cadere in combattimento o morire in seguito a causa delle ferite riportate. Quella notte si ritrovò solo e, nonostante fosse sfinito, non riuscì a dormire.

Il mattino seguente la guarnigione si destò al suono della tromba. Come ogni ordinario giorno all’interno dell’accampamento, alcuni si occuparono di pulire le armi, altri, sotto la supervisione di tribuni e vicari, rinforzarono con cervoli le fortificazioni e riempirono di pece il fossato, altri ancora eseguirono le consuete esercitazioni militari.

A Marco Claudio fu assegnato il turno di guardia sopra la Porta Decumana. Le ore passate in piedi a controllare l’esteso territorio dietro al forte, seppur poche, non lo aiutarono a lenire i reconditi pensieri che riecheggiavano dentro di lui.

Fin dai primi anni dell’arruolamento era stato una perfetta macchina da guerra, impetuoso e violento, fiero della sua ferocia, determinato nell’uccidere e nel sopravvivere. Pareva nato per stroncare vite. Ma più vinceva battaglie, più perdeva se stesso.

Quando un suo compagno lo raggiunse per dargli il cambio, Marco scese le scale e andò da alcuni soldati per dedicarsi anch’egli all’allenamento.

Un giovane che si destreggiava con un gladio carpì la sua attenzione: si muoveva agilmente, mostrando la sua efferatezza contro un palo di legno.

«Che impeto!», pronunciò Marco avvicinandosi a lui, «Come ti chiami ragazzo?»

Egli si fermò ansimando e lo guardò con rispetto: «Mi chiamo Antonio, arciere delle truppe ausiliarie.»

Il legionario si stupì di tale risposta e corrugò la fronte: «Io sono Marco Claudio Lurco. Come mai sei qui ad allenarti con un gladio se sei un arciere?»

«Vorrei combattere con spada e armatura, come fate voi legionari.»

«E per quale motivo?», gli chiese Marco, incuriosito dal suo carisma.

«Nelle battaglie voi state nelle prime file, a stretto contatto con il nemico. Rischiate la vita per Roma, sentite il fragore dello scontro e le lame che si incrociano. Io da lontano sento le urla e non posso far altro che coprirvi scoccando frecce. Vorrei arrivare alla fine di una battaglia e sentire di aver contribuito attivamente alla vittoria.»

«Ma gli arcieri sono parte dell’esercito, e in quanto tali contribuiscono nelle imprese di Roma!»

«Io vorrei sapere contro chi mi batto. Uccidere con arco e frecce non è come uccidere con la spada!», e fece un affondo con mano ferma e un sorriso superbo sul volto, come se avesse davanti a sé qualcuno da trafiggere.

Marco guardò il giovane con rammarico. «Dimmi Antonio, hai mai visto un uomo morire?»

«Certo, ne sono morti molti nella battaglia di ieri!», rispose lui prontamente.

Il legionario sorrise per la sua ingenuità. «Li hai visti da lontano Antonio. Ti chiedo se hai mai visto un compagno spirare tra le tue braccia, o se saresti capace di fissare un uomo negli occhi mentre la sua vita scivola sotto la tua lama.»

Il ragazzo rimase immobile e in silenzio guardò in basso.

«Sei giovane Antonio, ti addestrano severamente, ti insegnano a combattere e accrescono in te una ferocia che la tua età non dovrebbe conoscere. Servi bene Roma. Ma ricorda che c’è differenza tra scontrarsi con qualcuno per ucciderlo e combatterlo per non farsi ammazzare.»

Marco non attese nessuna risposta da parte del ragazzo e si mise ad esercitarsi accanto a lui, sapendo di essere osservato in ogni sua mossa.

Sguainò la spada con precisione, ricordando le sue prime battaglie, in cui il desiderio di distruzione sembrava una caratteristica innata destinata a crescere.

Ma ora lui era solo una pallida ombra dell’uomo impetuoso di un tempo. Si sentì debole dentro, arrendevole. Si rese conto del valore di ogni singola vita umana, seppur per anni si fosse nutrito del senso di onnipotenza che regalava la spada quando trapassava il corpo di un nemico.

Passarono i giorni, lenti. Nell’accampamento la disciplina più severa era mantenuta con estremo rigore e l’intera guarnigione doveva attenersi ad obbedire ai comandi e rispettare le insegne.

Nel frattempo, le campagne di Marco Aurelio in Germania perpetuarono, e un manipolo di soldati fu mandato in avanscoperta, mentre gli altri rimasero a protezione di Rezia e Norico.

Marco Claudio si ritrovò nella tenda con Lucio, guarito totalmente dalle ferite.

Mentre preparavano la sarcina in vista di una nuova spedizione, Marco tentò di parlare con il compagno circa il suo stato d’animo, privato sempre più del suo vigore. Al minimo accenno, Lucio lo ammonì, preoccupato per le eventuali ripercussioni.

Si strinsero i calzari, si legarono la cinghia con le corregge rivestite di metallo, si sistemarono la fascia al collo, si aiutarono a vicenda ad indossare la lorica, si misero l’elmo e il mantello, per poi unirsi alle truppe in partenza. Marco sentì l’armatura comprimergli il petto e costringerlo al suo ruolo.

Dopo ore di marcia, i romani si trovarono su un nuovo campo di battaglia. L’Aquila Imperiale dominava la legione disposta per l’avanzata.

Marco Claudio era nelle prime file. Davanti a lui, la schiera di un nemico sconosciuto.

Ruppero le righe e iniziarono lo scontro. Il legionario, per necessità e non per volontà, sguainò la spada, ma la sua forza era nulla. Lui bramava la libertà, gliela dettava la sua indignazione.

Mentre la battaglia divampò, fu come se il ruggito dei guerrieri e il fragore delle spade venissero da mille miglia di distanza. E quel che restò in mezzo a tutti i suoni ovattati fu solo un istante di lucidità. Marco si fermò bruscamente e aprì la mano, lasciando cadere il gladio. Il dolore al petto che tanto lo aveva pervaso nei giorni precedenti aumentò. Si arrese a quel dolore, si arrese alla sua coscienza. Si lasciò cadere sulle ginocchia, così come aveva fatto al termine dell’ultima battaglia, ma attorno a lui non c’erano cadaveri, c’erano uomini che lottavano, armi che si scontravano. Eppure lui percepì la desolazione e sentì il silenzio.

Vide un barbaro alto e robusto andargli incontro con una scure, senza distogliere lo sguardo e annientando ogni soldato che lo affrontava. Il legionario restò inerme, separato da ogni cosa, ma unito a se stesso.

Il cielo si ricoprì di immense nuvole, portatrici di un’improvvisa pioggia che avrebbe depurato la terra dal sangue.

Il barbaro era sempre più vicino. Marco alzò il capo e chiuse gli occhi.

Da quel momento, buio.


© Elena Bertoli

1 Comment


Benedetto Bertaccini
Benedetto Bertaccini
Jun 28, 2020

Bellissimo

Like
Hidden Word
  • Facebook - Black Circle
  • Instagram - Black Circle
  • YouTube - Black Circle

© 2020 Elena Bertoli.   Website created by Elena Bertoli

Tutti gli scritti presenti su questo sito sono coperti da COPYRIGHT e di proprietà del legittimo autore.

bottom of page