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La vita nelle vene

  • Immagine del redattore: Elena Bertoli
    Elena Bertoli
  • 25 gen 2018
  • Tempo di lettura: 6 min

Aggiornamento: 27 nov 2021


Chissà come sarebbe stato se lei non ci avesse ripensato, se non avesse avuto abbastanza forza per rialzarsi e chiamare aiuto. Chissà cosa le sarebbe successo se l’ambulanza non fosse arrivata in tempo. Chissà come sarebbe stato, morire. Erano passate molte settimane, e Megan non riusciva a pensare ad altro, fissando fuori del finestrino quelle immense nuvole bianche. Una voce la destò, avvisando i passeggeri che l’aereo sarebbe atterrato in Arizona con un leggero ritardo. Abby, l’amica di una vita, seduta a fianco a lei, la guardò teneramente e le prese una mano. Megan azzardò un lieve sorriso e girò di nuovo la testa verso il finestrino, poteva chiudersi in se stessa ancora per un po’. Non aveva mai visto il cielo così da vicino. In ventinove anni non era salita su un aereo nemmeno una volta. Viveva da sempre a Chicago, in un modesto appartamento, morbosamente ordinato, che rispecchiava a pieno la sua personalità. Non aveva mai fumato o bevuto alcolici, neanche il giorno della laurea. Teneva i capelli lunghi e biondi spesso raccolti. Amava ascoltare Barry White mentre dal balcone di casa osservava le persone che passavano, domandandosi dove fossero dirette o a cosa stessero pensando. Adorava leggere un buon libro e sorseggiare thè alla cannella, in attesa che il suo fidanzato tornasse a casa dall’ufficio. Lui faceva sempre tardi la sera, troppe riunioni le diceva. Lei era una giornalista, teneva una rubrica di gossip per il Chicago Sun-Times. Megan era una donna sobria ed elegante, sempre composta, incasellata nella vita perfetta di una cittadina americana. Ma da qualche tempo aveva delle cicatrici sui polsi e una, la più profonda di tutte, nel cuore. Abby non era come Megan. Spesso la incitava a lasciarsi andare e a staccare la spina dalla sua routine, ma quando la invitava a ballare in qualche locale, Megan era stanca, e quando le proponeva di fare un viaggio, Megan non poteva lasciare il lavoro. Abby amava scoprire il mondo, aprire la mente a nuove esperienze. Sapeva adattarsi a qualsiasi situazione, perché la libertà non la spaventava. Così diverse, eppure tanto unite. Abby non avrebbe lasciato l’amica sola nel momento più fragile della sua vita, ed era riuscita a convincerla a salire su quell’aereo per trascorrere qualche giorno in una riserva indiana, dove lei era stata anni prima. Ad attenderle fuori dell’aeroporto c’era Chogan, un nativo americano che Abby già conosceva e che le avrebbe condotte alla Riserva Navajo, nel cuore dell’Arizona. Dalla jeep, Megan ammirò in silenzio i canyon, la sabbia rossa e gli alberi sottili, quello sconfinato paesaggio tipico dei film western. Sebbene l’esperienza ancora ignota stuzzicasse la sua curiosità, in fondo la spaventava. All’interno della riserva, conobbero una comunità piccola e molto unita, guidata da uno sciamano. Le due amiche trascorsero le giornate insieme agli ospiti, immerse nei suoni della natura, facendo escursioni nei canyon, imparando le loro abitudini, assistendo alle cerimonie sacre e dormendo nei teepee. Abby era ben disposta verso i nativi, pronta a sperimentare e mettersi in gioco. I pensieri di Megan invece erano spesso rivolti alla sua città, alla vita che aveva lasciato, al fidanzato e a quella tragica sera in cui tutto il mondo le era crollato addosso. Si sentiva fuori posto, ma mostrava sempre il sorriso, lo splendido e dolce sorriso che indossano le persone tristi. Credeva ingenuamente che il dolore che provava sarebbe svanito, semplicemente soffocandolo. Ibhelan, un giovane della riserva, si fermava spesso a osservare Megan, immersa nei propri pensieri. La donna, a volte, si accorgeva di quello sguardo che instancabilmente indugiava su di lei. La fissava senza crearsi problemi, come se fosse la cosa più naturale al mondo. Lei si imbarazzava, ma lui non lo capiva. Un giorno la vide avventurarsi giù per un dirupo e volle raggiungerla. La trovò seduta su una roccia ad ammirare il cielo. I raggi del sole le accarezzavano il viso con una delicata potenza. Ibhelan non aveva mai visto nulla di così meraviglioso. Era una donna in rinascita, ma ancora non lo sapeva. Andò a sedersi accanto a lei, ma rimasero entrambi in silenzio, ad ascoltare la natura. Megan si sentiva a disagio, tentava di nascondere le cicatrici che aveva sulle braccia, non sapeva cosa dire, così si voltò verso di lui e gli sorrise imbarazzata. L’espressione di lui rimase fredda: «Hai imparato bene come sorridere, ma non sai nascondere la tristezza che hai negli occhi.» le disse. Il sorriso di Megan si spense in un attimo. Ibhelan alzò lo sguardo verso un’aquila che stava volando sopra le loro teste: «La vedi?», le chiese, indicando il rapace, «L’aquila vola alta nel cielo, più in alto di ogni altro essere vivente, avvicinandosi così al Grande Spirito. Ha una visione d’insieme che le permette di riconoscere ogni cosa». Poi rivolse di nuovo lo sguardo verso Megan. «L’aquila ti sprona a vedere il disegno che si esprime nelle vicende della vita, sia nei momenti di luce che in quelli bui.» Una lacrima segnò la guancia di Megan. Ibhelan si mise a frugare nella sua sacca, poi le prese una mano e poggiò sul palmo una piccola pietra turchese. «È per te. Prova a tenerla al collo per un po’. È azzurra come i tuoi occhi, ti aiuterà a vedere le cause che stanno alla base degli eventi della tua vita, cause che tu stessa hai generato e che non hanno tardato a far sentire i propri effetti. Prendi le redini del tuo destino!» Megan guardò attentamente la pietra e rimase in silenzio, completamente bloccata da quella strana situazione, da quell’uomo che se ne stava andando e che sembrava averle letto l’anima. Tornata nel teepee, Megan raccontò all’amica l’incontro inaspettato con il giovane. Abby le sorrise, per nulla sorpresa. «Come puoi ben vedere, qui è tutto diverso da Chicago. I Navajo vivono nella semplicità, sacralizzano ogni cosa. Per loro è importante portare la spiritualità nella materia. Qui hai l’occasione di spogliarti della maschera che hai indossato per tutta la vita Megan, non chiuderti in te stessa come hai sempre fatto, cerca di non rinnegare l’aiuto che ti viene offerto. Il cuore ha sempre una grande capacità di guarire!». Megan l’abbracciò, e insieme andarono a sedersi attorno al fuoco, ove tutti si stavano radunando. Lo sciamano accese la salvia e vi soffiò per fare fumo. Poi, con una piuma, indirizzò il fumo sulle persone presenti nel cerchio, preparandole così, una ad una, alla cerimonia che si stava per svolgere. Iniziò a cantare tenendo gli occhi chiusi, infine prese un pezzo di legno e disse ai presenti: «Nel Talking Stick, o Bastone della Parola, ognuno è alla pari con tutti gli altri. Non c’è superiore o inferiore. Ognuno può prendere questo bastone sacro e tenerlo tra le mani, e ognuno è libero di esprimersi e condividere ciò che tiene dentro di sé e vuole far emergere». A turno, gli indiani si passarono il bastone. C’era chi cantava, chi si confidava con il gruppo, chi semplicemente stava in silenzio, chi invocava una preghiera. L’enorme fuoco al centro scaldava i visi e i cuori. Megan fu catturata dagli occhi neri di Ibhelan, che la stavano fissando al di là delle alte fiamme. Quando il bastone arrivò tra le sue mani, una catena sincronica di immagini e ricordi passati riaffiorò alla mente, e il panico la travolse. Tutti la guardavano, in un rispettoso silenzio, ma solo lo sguardo di Ibhelan riuscì a tranquillizzarla e a darle la forza di aprire il cuore. Con inaspettata fermezza, Megan iniziò a parlare, a raccontare la sua piatta vita, che lei credeva perfetta. Raccontò del fidanzato, di come le si era spezzato il cuore quando aveva scoperto il suo tradimento. Raccontò l’enorme abisso di negatività e depressione in cui era finita in pochi giorni. Raccontò senza vergogna il gesto estremo fatto nel bagno di casa, per smettere di pensare, per sparire. Raccontò come d’un tratto, sdraiata per terra, guardava il sangue colarle dai polsi, rendendo tutto amaramente definitivo. Raccontò la vittoria del suo istinto di sopravvivenza, che l’aveva portata a chiamare in tempo un’ambulanza. Gli occhi di Ibhelan erano sempre lì, la guardavano aprirsi, piangere e sfogarsi come non aveva mai fatto prima, la vedevano rinascere verso una nuova consapevolezza, ricostruirsi pezzo dopo pezzo. Il giovane andò a sedersi vicino a lei, prese da terra un po’ di sabbia e la fece cadere lentamente sulle braccia di Megan: «Questa sabbia è rossa, rossa come il sangue che scorre nelle tue vene, ancora!». Nell’aria non si udiva altro che lo scoppiettio del fuoco. Megan fissava Ibhelan dritto negli occhi: se fin da subito era riuscito a riconoscere la sua tristezza, ora avrebbe sicuramente percepito anche l’immensa gratitudine. Abby fu l’ultima a parlare. Scambiò un sorriso d’intesa con l’amica: l’aveva sempre vista sopravvivere e adattarsi a una vita che in fondo non le apparteneva. E ora quella donna fragile aveva ricevuto un aiuto che direttamente non aveva chiesto, ma che silenziosamente desiderava dal profondo dell’anima. Megan ascoltava ammaliata il suono dei tamburi, che piano piano risvegliavano in lei un istinto sopito. Con una forza che non credeva di avere, si mise a danzare intorno al fuoco insieme ai Navajo. In contatto con se stessa, si sentiva catturare e portare in un percorso ancestrale che le faceva rivivere antiche sensazioni, premeva la sabbia sotto i piedi e alzava le mani per raggiungere il cielo stellato, silenzioso spettatore della sua rinascita. Immersa nel ritmo di quell’armonia ipnotica, si lasciò trasportare dalle proprie emozioni, finché i battiti dei tamburi divennero tutt’uno con il battito del suo cuore, e sentì nuovamente fluire la vita nelle sue vene. © Elena Bertoli Racconto presente nel libro "Riflessi di Realtà", Edizioni Cerchio della Luna, 2013.


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