Magie d'Oriente: il mio viaggio in Oman
- Elena Bertoli
- 2 apr 2018
- Tempo di lettura: 10 min
Aggiornamento: 28 gen 2020

Mai avrei pensato mesi fa che la meta del mio prossimo viaggio sarebbe stata l’Oman, eppure tra tante possibilità, la scelta è caduta su questa porzione di penisola araba dove ritirarsi dalla routine quotidiana e perdere il senso del tempo. Cercavo una parentesi di serenità e pensavo di poterla trovare su una spiaggia o nel deserto, lontana da tutto e da tutti. Non conoscendo per niente l’Oman, non mi ero creata nessuna aspettativa sul viaggio, e probabilmente grazie anche a questo, ho avuto modo di vivere esperienze così intense ed emozionanti.
Una volta arrivata alla camera del resort, da sola nella tranquillità della notte, mi sono buttata su quell’enorme letto con un sorriso che non avevo da tempo e ho iniziato a realizzare di essere in un luogo che probabilmente mi avrebbe preso un pezzo di cuore. Nonostante una parte di me pensasse di non meritare questa vacanza, ho deciso che mi sarei goduta a pieno ogni esperienza, ogni sensazione, ogni situazione e ogni persona che mi sarebbe capitata davanti. E così è stato.
Il resort dove alloggiavo si trovava nella baia di Mirbat, vicino alla città di Salalah, nella regione del Dhofar, a sud dell’Oman. L’accoglienza e la gentilezza di tutto lo staff sono state da subito impeccabili. Il litorale a pochi passi dalla camera da letto mi ha regalato tramonti silenziosi e suggestivi, con un cielo dipinto di caldi colori che si riflettevano sull’acqua. Ammetto che già solo questo mi sarebbe bastato per rendere speciale la mia vacanza, ma in effetti dovevo ancora rendermi conto di quante meraviglie avrei potuto scoprire nei giorni successivi, semplicemente mettendo il naso fuori dal resort.
Una tra le sorprese più belle di questo viaggio è stata conoscere Aladino, detto Ala, un nome che è tutto un programma, che si occupava dell’accompagnamento e della guida dei turisti in varie escursioni. È un ragazzo gentile ed educato, divertente e disponibile per ogni necessità. Grazie a lui ho avuto modo di confrontarmi e conoscere quanto più possibile sulla cultura, la religione e le tradizioni del paese.
La prima tappa fuori dal resort è stata la visita alla città di Salalah, seconda città più popolata dell’Oman. La tangenziale che abbiamo percorso per arrivare dal resort alla città è stata inaugurata a gennaio e in alto su una parete rocciosa si trovava la scritta in arabo “Buon viaggio”. Durante il tragitto scorrevano alla vista case arabe di varie tipologie, ognuna con una sua particolarità, alternate a vasti terreni disabitati e aridi, dromedari in libertà che talvolta si azzardavano ad attraversare la strada con una tranquillità tutta loro, e una delle residenze del Sultano, vicino alla quale si potevano ammirare i suoi cavalli arabi. Una grande rotonda verde apriva le porte a Salalah, il cui ingresso è caratterizzato da palme e lampioni ricchi di piccoli dettagli estetici.
In centro si trovava la Moschea del Sultano Qabus, circondata anch’essa da fitte palme. Alzando gli occhi ho potuto ammirare i due imponenti minareti e la mezzaluna islamica in cima alla cupola principale. Tolte le scarpe e indossato un velo, sono entrata per la prima volta in un luogo di culto islamico insieme ad altri turisti. La parte interna è rivestita di una soffice moquette per ospitare i fedeli in preghiera e circondata da centinaia di libri del Corano finemente trascritti. Sotto ad un maestoso lampadario a gocce brillanti e in direzione della Mecca, Aladino ha attentamente spiegato e mostrato la modalità di preghiera islamica.
Poco distante dalla Moschea, in fondo ad un viale alberato, si trovava il Palazzo del Sultano, con l’emblema omanita sulle pareti delle due torri e un enorme portone in legno massello. La particolarità di questo luogo regale era la totale assenza di guardie all’esterno, ma non solo. Una parte del muro del palazzo faceva da appoggio ad alcuni banchetti del tipico mercato arabico, il suq. Ho potuto così piacevolmente notare come in Oman il confine tra ciò che è regale e ciò che è popolare fosse davvero labile.
Il mercato, seppur d’impronta commerciale, era ricco di colori e odori. Tra stoffe, candelabri, infusi e pugnali omaniti, il profumo dell’incenso ne faceva da padrone, accompagnando i passanti. Tra i banchetti ho incrociato i miei passi con quelli di donne interamente coperte da abiti lunghi, veli o burqa, il cui sguardo è stata l’unica cosa che ho potuto notare.
Di grande interesse storico e culturale è stata infine la visita al museo di Al-Baleed, nel quale ho potuto apprendere i grandi e importanti cambiamenti a cui il Sultano ha provveduto per il benessere del proprio Paese.
Apro qui una parentesi per fornire qualche accenno sul Sultanato dell’Oman e su una realtà economica e sociale diversa dalla nostra sotto molti aspetti. Il nome completo del Sultano è Qabus bin Sa’id bin Taymur (figlio di Sa’id, figlio di Taymur), che ricalca infatti la propria dinastia fino al nonno. È nato proprio a Salalah ed è salito al trono nel 1970, a soli trent’anni, dopo aver spodestato il padre, ancora troppo conservatore e quindi giudicato non più adatto a gestire il paese. Nel museo era presente la trascrizione del discorso che egli fece in occasione della sua salita al trono, rivolgendosi con molta umiltà ai cittadini dell’Oman, chiamandoli “Fratelli”.
Per anni egli ha fatto visita ai vari paesi dello Stato, radunando le genti in luoghi aperti e chiedendo direttamente a loro i possibili miglioramenti che avrebbero desiderato riscontrare per il loro benessere. La grande quantità di petrolio come risorsa primaria del Paese e la mentalità progressista di Qabus hanno permesso enormi passi in avanti a livello economico e sociale. Sono state costruite strade e case, è stato istituito un parlamento in ausilio al Sultano, le cui cariche possono essere assunte anche da donne, le leggi sono maggiormente improntate sul recupero sociale e morale della persona e non più sulla punizione corporale, la sanità e l’istruzione sono completamente gratuite. Il volto del Sultano si trova raffigurato ovunque si vada, nei negozi, nei bar, negli hotel, non per una sua imposizione, ma proprio in virtù della riconoscenza che il popolo ha nei suoi confronti.
Usciti dal museo, abbiamo attraversato le piantagioni di noci di cocco, banane, papaya e tamarindo.
Una volta tornata al resort, ho avuto modo di confrontarmi con Aladino su quanto esperito durante la giornata, per poi ritirarmi lungo il litorale e lasciarmi impossessare da quella forte sensazione che mi avevano donato gli sguardi delle donne arabe al mercato. Ho pensato a me, e ho pensato a loro. Mi passavano accanto tra il fumo degli incensi e percepivo la verità che portavano dentro. Non c’era bisogno di scavare tanto, era sottile ma si sentiva. Noi abbiamo un’idea di loro che purtroppo è limitata alla nostra visione occidentale, pensiamo erroneamente che un velo le privi della libertà di espressione, le consideriamo non emancipate, serve del proprio uomo o di una religione bigotta e poco progressista. Ebbene, per ciò che ho potuto vedere io, posso azzardare a dire che non è così. A loro non pesa coprire il proprio corpo, semplicemente perché non hanno bisogno di farsi conoscere attraverso di esso. Non sentono il bisogno di mostrarsi per ciò che non sono, non hanno bisogno degli apprezzamenti altrui per sentirsi importanti o per valere qualcosa. Loro hanno imparato a mostrarsi per ciò che sono, tramite l’unico mezzo che l’essere umano ha per comunicare la propria essenza: gli occhi.
Nella mia quotidianità continuo a vedere donne che cercano di apparire agli altri per ciò che non sono e che si compiacciono quando ricevono complimenti su questo, che preferiscono esibire il proprio corpo perché è tanta la paura di rivelare ciò che portano dentro, che si nascondono dietro a sorrisi studiati ed espressioni vuote. Sono circondata da donne che, in fondo, non sono diverse da me. E in Oman c’è lo specchio opposto. Ho visto donne con il burqa avere una naturalezza che non mi appartiene più da anni, le ho viste comunicare con gli occhi ed essere più vere di me, che seppur senza veli, ho una maschera perenne addosso difficile da togliere nonostante i miei sforzi.
Ho lasciato che l’oceano si prendesse queste riflessioni e le portasse nel buio del cielo, senza immaginare che il giorno seguente avrei vissuto una delle esperienze più suggestive ed emozionanti della mia vita: l’escursione nel deserto.
A bordo di suv abbiamo viaggiato per ore tra paesaggi che cambiavano progressivamente, lasciandoci alle spalle il mare, sorpassando le montagne e raggiungendo zone rocciose e sempre più desertiche. L’autista del suv a cui mi avevano assegnato si chiamava Mohammed, un ragazzo sorridente in abito tradizionale omanita, con un turbante e un’ampia tunica bianca lunga fino alle caviglie, chiamata dishdasha, che sapeva solo qualche parola basica d’inglese. È stato difficile e altrettanto molto divertente provare a comunicare con lui lungo il tragitto. In compenso sono riuscita ad imparare qualche frase in arabo e a capire che lui è un beduino che vive in un villaggio nel deserto con la sua famiglia e un centinaio di dromedari.
A metà strada abbiamo fatto una sosta per interagire con un gruppo di dromedari neri e per visitare il sito archeologico di Ubar, la cosiddetta “Atlantide del deserto”, un’antica città mercantile conosciuta nel Corano con il nome di Iram e sparita nella sabbia per l’ira di Allah. Blocchi di sassi disposti in maniera circolare o longitudinale delimitavano quelle che un tempo erano le vie e le torri della città, il cui centro era sprofondato in un’immensa caverna sottostante, ad oggi ancora inaccessibile.
Ritornati sui suv, ci siamo poi avviati lungo una strada sterrata lunghissima, coperti dalle enormi scie bianche che lasciavano le jeep davanti a noi. Una curva a destra e le gomme slittavano finalmente sulla sabbia. Per chilometri e chilometri, tra risate e musica araba, Mohammed sterzava e saltava sulle dune più basse, fermandosi infine davanti ad un muro di sabbia. Col fiatone e i piedi che sprofondavano nella sabbia dorata e soffice, siamo arrivati tutti in cima, ammirando il panorama mozzafiato che ci attendeva.
Eravamo nel deserto Rub’ Al-Khalì, chiamato nel Corano il “Quarto Vuoto”, lasciato da Allah dopo che ebbe creato le altre tre parti dell’universo (cielo, terra e acqua), che occupa una porzione grandissima della penisola araba, tanto da essere il secondo deserto più esteso del pianeta e l’unico ad avere dune che raggiungono i 300 metri di altezza. Dicono che il deserto sia imprevedibile e riservi sempre qualche sorpresa. Niente di più vero.
Le dune sovrastavano la vastità di sabbia, che cambiava colore in armonia con il sole. Sul crinale della duna osservavo le sfumature delle onde di sabbia, i giochi di luci ed ombre che spiccavano e le increspature che ogni mio passo creava. Mi sorprendevo ogni momento di più della bellezza su cui poggiavo e dell’incanto che mi si prospettava di fronte, con il tramonto e un gruppo di dromedari in fila ad incorniciarlo. La sensazione che ho avuto, seduta sulla sabbia a guardare il sole che scendeva fino a scomparire tra le montagne dorate e rossastre, era che quel deserto nascondesse molta poesia in attesa di trovare un’espressione.
Con il cielo di nuovo uniforme e le urla gioiose di Aladino, siamo corsi giù dalla duna e abbiamo raggiunto il campo tendato che ci avrebbe ospitato per la notte. Ho assistito, senza avvicinarmi troppo, alla preghiera della sera che Aladino e gli altri omaniti celebravano inchinandosi vicino al fuoco, in direzione della Mecca, sentendo lievemente i canti e le lodi che intonavano. Nel frattempo le torce illuminavano la nostra cena a base di cosce di pollo, pane arabo, riso e spezzatino di dromedario.
Mi sono poi voluta allontanare un po’ dal chiacchiericcio italiano per sentire il silenzio e assaporare l’atmosfera di pace che il deserto ormai oscuro poteva donare. Le dune altissime attorno a me iniziavano a prendere il colore buio del cielo, mi perdevo ad osservarne i lineamenti sempre più neri, mentre la sabbia sotto ai miei piedi si faceva fredda. Il cielo era privo di interferenze e le stelle si potevano finalmente manifestare in tutta la loro bellezza, nessuna uguale all’altra. Mi sono sentita piccola. Sembrava che fosse rimasto solo l’essenziale, e tutta la poesia del deserto potesse finalmente riecheggiare da sotto la sabbia e richiamare anche in me ciò che è l’essenziale. E allora mi sono sentita grande, perché potevo essere parte di tutta quella magia.
Ho scoperto che nel deserto è così, ti abbandoni, ti schiudi, ti liberi.
Il momento più suggestivo della serata è stato quando ci siamo radunati tutti attorno al fuoco, sorseggiando thè caldo mentre ascoltavamo le storie che Aladino ci raccontava sulle tradizioni, sulle leggende e sulla cultura omanita, e poi imparando la tapka, la danza tipica omanita che ci insegnava Mohammed. Mi sono ritrovata infine a ballare da sola ad occhi chiusi vicino al fuoco, con un turbante in testa ed una sciarpa legata in vita, muovendo le dita e i polsi a ritmo di musiche arabiche. Uno ad uno, i miei compagni si ritiravano a dormire nelle proprie tende beduine, finché sono rimasta solo io, a scaldarmi i piedi vicino al fuoco mentre Aladino e gli altri omaniti fumavano il narghilè a pochi passi da me. La luna non si era ancora mostrata. Nel silenzio di quella notte serena spiccavano soltanto lo scoppiettio del fuoco e i loro discorsi in arabo.
Ho passato qualche ora dormendo nella mia tenda, svegliandomi prima dell’alba con i brividi di freddo. Una volta uscita, i colori tiepidi del cielo iniziavano pian piano a colorare l’ambiente. La luna aveva ancora un tempo precario e faceva quel che poteva per guidarci nella sabbia fredda poco lontano dal campo, ad aspettare su un crinale il sole che si innalzava oltre le dune scure, portando luce e sorrisi, risvegliando un luogo abbandonato ma vivo più che mai.
Dopo la colazione, sulla strada del ritorno ci siamo fermati a Wadi-Dawkah, la vallata di alberi d’incenso nella regione del Dhofar, patrimonio dell’Unesco. Il nome degli alberi è Boswellia sacra. Aladino ci ha illustrato il procedimento di estrazione dell’incenso, che non è altro che la resina della pianta, raccolta dopo aver decorticato i suoi rami. Anche senza la lavorazione precisa e rituale dell’incenso, è bastato bruciarlo un attimo per sentirne subito il profumo agrumato espandersi nell’aria.
Un’altra importante esperienza che ho potuto fare durante questo viaggio è iniziata anch’essa a bordo di suv, sulla via verso il confine dello Yemen. La strada che avevamo intrapreso, scavata nella roccia, si inerpicava sulla Montagna della Luna fino a raggiungere i 1200 metri d’altezza.
All’ombra della Cava di Marnif, abbiamo assistito divertiti al fenomeno dei blow holes, getti di vapore acqueo che si incanalavano attraverso le scogliere, la cui pressione faceva alzare al vento le nostre gonne e i nostri capelli.
Ci siamo poi addentrati, seppur per poco, nella Wadi-Afoul, un’altra vallata frequentata da dromedari in libertà, ricca di alberi di franchincenso e rose del deserto, fiori che sbocciavano nell’aridità delle zone che attraversavamo e a cui donavano qualche sfumatura rosata.
Dopo molti tornanti, salite e discese in mezzo ad un paesaggio letteralmente preistorico, abbiamo finalmente raggiunto la spiaggia di Al Fazayah. Questo gioiello dell’Oceano Indiano racchiudeva un litorale di sabbia bianca incontaminata, una leggera brezza che attenuava il calore del sole e rocce di varia grandezza scavate dalle maree. Nonostante la mia profonda paura dell’acqua, non ho potuto resistere a quel colore cristallino e mi sono immersa con una tranquillità che non mi è mai appartenuta. Durante la giornata passeggiavo lungo la spiaggia e a tratti rimanevo ipnotizzata di fronte alla bellezza dell’oceano, mi perdevo a fissare la limpidezza dell’acqua e le onde che raggiungevano i miei piedi e sorridevo, semplicemente sorridevo.
Non sono una donna di mondo, i viaggi che ho fatto fino ad oggi li posso contare a malapena sulle dita di una mano; non ho quindi molti termini di paragone, ma credo che tutto ciò che ogni viaggio ci lascia dentro non sia quantificabile né facilmente comprensibile per chi non lo vive.
Le meraviglie naturali a cui ho assistito, le esperienze nuove che ho intrapreso, la felicità che ho provato ogni giorno (tranne l’ultimo), la cordialità e la simpatia di tutte le persone che ho conosciuto, mi hanno dato la conferma che l’Oman è decisamente un luogo che ti cattura il cuore, ti seduce e ti lascia un senso di smarrimento e malinconia una volta lasciato. Possono passare i giorni, ma non passerà il mio desiderio di tornarci!
Elena Bertoli
Guarda il video del mio viaggio in Oman:
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